“Esterno notte”, polifonia di un’Italia sconfitta nella serie di Bellocchio sul rapimento Moro

Il rapimento di Aldo Moro e il suo omicidio, una delle pagine più nere della Storia del nostro Paese, sono una ferita che sanguina ancora e con cui gli italiani continuano a fare i conti. Marco Bellocchio lo sa bene: per questo il regista di Bobbio, dopo quasi vent’anni dal suo “Buongiorno, notte” del 2003, con “Esterno notte” torna sul ‘caso’ Moro per svelare tutto il non detto precedente. È ancora notte, sempre buio, il periodo storico è lo stesso, ma in “Esterno notte” la Storia non è più vista dallo spioncino della cella di prigionia del presidente della DC. La narrazione si dilata attraverso la molteplicità dei punti di vista dei personaggi protagonisti di quella tragica parabola, storica e soprattutto umana.

Esterno notte, prima in Cannes Première, poi nelle sale in due parti, la prima dal 18 maggio, la seconda dal 9 giugno, nasce come mini-serie composta da 6 episodi e in autunno verrà trasmessa su Rai 1 nell’originale formato seriale. Il regista sfrutta quindi la componente episodica per realizzare un’opera monumentale e polifonica dei giorni di piombo che hanno preparato e accompagnato il sequestro Moro fino al tragico epilogo, senza nulla togliere all’unità cinematografica d’insieme e allo spessore d’indagine, tanto nella dimensione storico – politica quanto in quella psicologica.

Film che, come il precedente “Buongiorno, notte”, ancora una volta mescola reale e immaginato, basta immergersi nell’incipit di Esterno Notte per accorgersi subito di come il piano politico e quello umano stiano in armonico equilibrio. Il film inizia infatti con il protagonista Aldo Moro – interpretato da uno straordinario Fabrizio Gifuni – sfinito ma vivo in un letto d’ospedale, davanti a Giulio Andreotti (Fabrizio Contri), Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi) e Benigno Zaccagnini (Gigio Alberti), mentre comunica la decisione di dimettersi dalla DC e ringrazia “i brigatisti per avergli salvato la vita”. In questo modo Bellocchio mette fin da subito la politica e i suoi protagonisti di fronte alle proprie mancanze: faccia a faccia con l’uomo che doveva morire mentre tutti fingevano di salvarlo. Un incipit illuminante che richiama la fuga notturna dell’Aldo Moro/Roberto Herlitzka di “Buongiorno, notte”, liberato dalla prigionia dalla brigatista Chiara interpretata da Maya Sansa.

Da qui la narrazione si struttura poi in sei episodi, diventando quindi una polifonia di punti di vista dove la cronologia degli accadimenti viene ripercorsa attraverso il filtro dello sguardo dei vari protagonisti: così, dopo un primo focus sul contesto storico – politico di quei giorni, tra conflitti a fuoco, scontri di piazza, gambizzazioni, Brigate Rosse in guerra contro lo Stato e un Aldo Moro presidente della Dc, artefice insieme a Berlinguer di quel “compromesso storico” che avrebbe portato per la prima vota l’insediamento di un governo sostenuto dal Partito Comunista insieme alla Democrazia Cristiana, gli episodi si concentrano sulle singole figure. Per quanto riguarda la prima parte, attualmente in sala, l’episodio iniziale si focalizza sul protagonista fino al giorno del suo sequestro; il secondo su Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’interno e allievo dello stesso Moro, dilaniato tra le ragioni di Stato e quelle dell’uomo; il terzo e ultimo su Papa Paolo VI, amico sincero di Moro, colto nell’impotenza della sua umanità più che nella grandezza istituzionale, che fece di tutto, ma ancora non abbastanza, per riportarlo a casa salvo.

In una analisi lucida e senza sconti sulle responsabilità politiche dell’accaduto, Bellocchio penetra lentamente sottopelle costruendo l’affresco di un’Italia sconfitta, smascherando ipocrisie, opportunismi e crudeltà di personaggi grotteschi che giorno dopo giorno hanno distrutto il sogno di Moro di un effettivo rinnovamento politico. Ma anche nei momenti in cui l’analisi si fa più dura e provocatoria, lo sguardo del regista non è mai di condanna: prevale sempre l’umana comprensione per chi ha vissuto lo strazio destabilizzante di quella tragedia. Tra posizioni di facciata e ambiguità irrisolte, realtà e messa in scena, lo scavo profondo nei rapporti affettivi – famigliari e con i compagni di partito – è allora luce potente nel buio angoscioso dell’intera vicenda. Costruita con rigore e misura, molto fedeli alle attitudini del protagonista: un immenso, dolente Fabrizio Gifuni capace di incarnare Moro alla perfezione; nei gesti, nello sguardo, nel tono della voce, nell’attenzione ai dettagli. Grazie Marco Bellocchio, un altro colpo da maestro di cui attendiamo il gran finale.

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