“‘Diario del Novecento’ di Bellocchio? Memoria personale, ma anche romanzo del secolo”

Il mio lavoro mentale, intellettuale, non procede mai per selezione, bensì per accumulo, per associazioni libere, assonanze. […]. Non la via più breve, ma anzi un percorso molto più lungo e tortuoso di quello normale: lascio sempre la strada maestra, e non per la scorciatoia che fa arrivare prima, ma per girare intorno, divagare, perdermi…[…]”.

Così lo scrittore piacentino Piergiorgio Bellocchio definisce il suo lavorio di riflessione sul mondo circostante in “Diario del Novecento”, il capolavoro che ci ha lasciato appena prima di andarsene, pubblicato per Il Saggiatore (2022) a cura di Gianni D’Amo, autore dell’intenso e personalissimo saggio introduttivo. Insofferente alla mercificazione della cultura e ai tanti autori che si compiacciono della mole delle proprie ambizioni, lo scrittore Bellocchio sceglie la forma diario come quella a lui più naturale, dove può dire quel che gli sta a cuore in poche righe o in qualche pagina. E in cui l’accostamento di testi, generi, temi, stili non è certo disordine caotico, ma semmai specchio fedele del suo pensiero in movimento. In un libro che è anche parabola della forma-rivista, tra letteratura e politica, storia e filosofia, momenti privati e eventi pubblici, il lettore può muoversi a piacimento tra Marcel Proust e Giorgio Morandi, o da Collodi a Tangentopoli, da Marlon Brando a Mussolini, da Umberto Eco a Bernardo Bertolucci a Pasolini…Fino all’arte contemporanea e al grottesco, senza mai sentirsi appesantito, ma anzi sprofondando in una originale lettura del XX secolo. Un libro assolutamente imperdibile per chi sia interessato ad una visione sfaccettata e culturalmente approfondita del Novecento, oggi sempre più rara da trovare.

Ne abbiamo parlato con Gianni D’Amo, curatore di ‘Diario del Novecento”, per capire meglio spirito e struttura di questa magnifica opera-testamento: impresa a quattro mani di due amici fraterni, ultimo affondo culturale tra speranze, disillusioni e contraddizioni del secolo.

Piergiorgio Bellocchio, tra gli ultimi intellettuali del ‘900: lucido, onesto, schivo alle logiche di potere del mercato culturale. “Amico, interlocutore e allievo”, credo tu ti definisca nei suoi riguardi: ci racconti qualcosa della vostra amicizia durata decenni?

In realtà ‘amico, interlocutore e allievo’ sono parole usate, a proposito del mio rapporto con Piergiorgio, dal critico letterario Alfonso Berardinelli, a sua volta amico di Bellocchio e insieme a lui creatore della rivista ‘Diario’, totalmente autoprodotta a quattro mani dal 1985 al 1993 dopo la chiusura degli indimenticabili “Quaderni piacentini”. Ho scritto in prefazione che Piergiorgio ‘mi è compagno, maestro, fratello maggiore, amico’. Quando il nostro rapporto si è fatto assiduo? Sicuramente dalla seconda metà degli anni ’80 in poi, quando Bellocchio è tornato più stabilmente a Piacenza. Prima era quasi sempre a Milano. L’ho conosciuto fin dal 1972-’73, ma allora il rapporto era diverso: io ero un giovane studente rivoluzionario, all’epoca in contatto anche con altri redattori di ‘Quaderni Piacentini’ (Grazia Cherchi e Gughi Vegezzi, per esempio), secondo le forme allora canoniche del rapporto tra militanti e intellettuali: una richiesta di sottoscrizione, la firma di un appello. Ma da parte di Bellocchio sentii subito una particolare attenzione per la mia persona e il mio modo di vivere.

Il legame con Piergiorgio si è fatto stringente più avanti: ricordo con affetto e nostalgia la meravigliosa esperienza del Circolo Karl Marx in Vicolo del Guazzo a Piacenza, tra metà anni ’80 e inizio anni ’90. Una fumosa stanzetta conosciuta a pochi, dove con Bellocchio e altri più giovani ci trovavamo in modo del tutto informale, molto lontano da riflettori e circuiti mediatici. Su sua sollecitazione commentavamo libri insieme, dopo averli preventivamente letti: Piergiorgio mai in cattedra, sempre interlocutore alla pari. Da lì la nostra amicizia si è infittita, fino a diventare frequentazione quotidiana. Dal punto di vista culturale, la vicinanza con Piergiorgio mi ha fatto scoprire quanto, per capire il mondo, letteratura, arte, memorialistica non siano certo meno importanti della teoria politico-filosofica, della sociologia e della storiografia. E in questa direzione i suoi consigli di lettura sono stati preziosi: è lui che mi ha avvicinato alla grande narrativa europea e americana. Parallelamente sono cresciute intimità, confidenza, condivisione di gioie e amarezze. Di me, che rispetto a una figura come la sua contavo poco, credo amasse la serietà e la mancanza di ruffianeria: materia prima quest’ultima di molti cosiddetti ‘intellettuali’ da lui accuratamente scansati, disposti a tutto pur di attirare la sua attenzione e farsi pubblicare un pezzo.

Il meccanismo con cui si sceglie un allievo (nonché amico) è analogo a quello della scelta del maestro. […]Occorre una forte stima, insieme alla simpatia, fino all’affetto. Ogni buon rapporto maestro-allievo è reciproco: io ho imparato moltissimo da Gianni.

[…]Ma assai più dei contenuti di una dottrina e di una militanza conta il grado di serietà e di impegno e l’esperienza umana, di vita, che a quella milizia si è intrecciata, il modo, l’intensità e i valori vissuti: solidarietà, altruismo, fraternità. […] È questo che mi piace di Gianni […]”.

Ecco, mi riconosco pienamente in questo ‘ritratto’ che compare in ‘Diario del Novecento’. Credo renda al meglio la natura del nostro rapporto e l’importanza che per lui aveva l’amicizia: quel sentimento di fraternità e comune bisogno di ricerca della verità, poi culminato nel progetto condiviso di Cittàcomune, che insieme abbiamo fondato nel 2006. Penso che Piergiorgio si sia lasciato coinvolgere in questa impresa anche spinto dalla nostra forte amicizia. Né credo si sarebbe lasciato convincere facilmente da altri a dare forma e pubblicazione agli ultimi due suoi libri: ‘Un seme di umanità’ (Quodlibet 2020), e l’ultimo, straordinario ‘Diario del Novecento’.

E allora passiamo a ‘Diario del Novecento’, di cui tu sei il curatore. Come mai hai deciso di buttarti in questa impresa? Che avventura è stata dal punto di vista della selezione del materiale e qual è l’importanza della forma-diario in questo testo?

Sono partito da una mia convinzione di base, la stessa che mi ha mosso per la pubblicazione di un ‘Seme di umanità’: mi sembrava assurdo che Bellocchio avesse scritto cose straordinarie, edite ma introvabili, e altre in gran parte inedite, e che questi contributi rimanessero non letti o non valorizzati adeguatamente. Per il ‘Seme’ si trattava di vecchi saggi dedicati ad autori e libri prediletti sin dagli anni ’60. Nel caso di ‘Diario del Novecento’ bisognava invece mettere mano alle agende personali, manoscritte, redatte da Piergiorgio per quarant’anni e non pensate per la pubblicazione. In una circostanza come nell’altra il mio obiettivo era che la sostanziale sua vocazione ad essere un autore postumo si limitasse alla parzialità, non fosse totale. Districarsi tra quelle agende non era semplice: 208 quaderni riempiti per decenni, che insieme formavano una mole non organica di riflessioni a 360°. Pagine e pagine fitte di appunti, confessioni, analisi di lettura, ritagli di giornali, recensioni di film, sottolineature, annotazioni e varianti, pubblicità, necrologi di sconosciuti, immagini incollate. Non era facile capire come governare questa miscellanea diaristica in cui era confluito tutto quello che aveva catturato l’attenzione di Bellocchio dal 1980 al 2020. L’impresa richiedeva grande confidenza con i quaderni e il loro autore, ma anche estrema disponibilità reciproca a mettersi in gioco: selezionare, scegliere, tagliare è sempre molto difficile e doloroso.

Siamo partiti dall’esame dei testi, concentrandoci su un certo numero di quaderni e selezionando le parti che più ci convincevano. Presto ci è stato chiaro che la selezione ragionata dei taccuini e dei loro poliedrici contenuti doveva diventare un libro da leggere gustoso e stimolante, che non superasse le 5-600 pagine. Quindi la scelta di focalizzarci sulla selezione dei primi vent’anni (1980-2000), cercando di rispettare e conservare il più possibile la polifonicità degli originali diaristici: forma germinale rispetto ai generi letterari canonici che, pur non coincidendo con nessuno di essi, ha il vantaggio di comprenderli tutti. Così, da un lato abbiamo mantenuto la scansione cronologica (indicando per ogni capitolo titolo e date); dall’altro abbiamo costantemente alternato diverse misure testuali, generi, temi, stili. In un’operazione complessa di scarto, montaggio e giustapposizione anche delle immagini, che scongiura il rischio di un’omogeneità artificiosa, mantenendo lo spirito sfaccettato della riflessione bellocchiana sempre in divenire. Fin dalle prime pagine di ‘Diario del Novecento’ considerazioni linguistico-filosofiche e favolette o apologhi morali si mescolano a lampi aforistici e battute comico-satiriche; recensioni cinematografiche si intrecciano ai consigli di lettura: nel costante tentativo di rispondere alla domanda: “Come vivere?”, assolutamente centrale nella riflessione di Piergiorgio Bellocchio.

Durante la lettura ho colto due elementi principali: la costante tensione morale dell’autore e l’attenzione ai dettagli, spia dei cambiamenti sociali dell’Italia del Novecento. Cosa ne pensi?

Sono d’accordo, la tua è un’osservazione perspicua. La tensione morale di Bellocchio si rivela nel continuo incontro-scontro con se stesso e il mondo circostante, tra ciò che è e ciò che dovrebbe o potrebbe essere. Non a caso tra gli autori a lui più congeniali ci sono i moralisti francesi, dal ‘600 ad oggi. Come loro, Bellocchio – moralista, ma mai moralistico – registra e mette in ridicolo il costume corrente, sempre praticando due vie di fuga: l’autocritica, per cui prima e più degli altri mette in discussione se stesso e chi gli è vicino; e la cifra ironico-satirica, che gli permette di affrontare con acuta leggerezza temi anche molto inquietanti (come la malattia e la morte, o la bontà e il bene). I medesimi temi sono discussi su diversi registri, dal tragico al comico al grottesco, dal basso all’alto, ma sempre con grande attenzione nell’uso delle parole proprie e altrui: preliminare atto di onestà nei confronti del lettore. È chiaro come questo si rifletta poi nell’altro aspetto essenziale che giustamente hai evidenziato: ricchezza e attenzione ai dettagli. Piergiorgio procede nel modo meridiano o diagonale che gli è peculiare, prendendo avvio da un film, un libro, un episodio vissuto, un ritratto, una nota a stampa o un’espressione linguistica, un incontro, un quadro: sempre storicamente considerati, nel loro insieme si fanno spia dei profondi cambiamenti antropologici e sociali del Novecento. Ed è per queste vie che il ‘Diario’ compone un personale, variegato affresco dell’Italia del XX secolo.

“È MANAGER, OPINION LEADER, DECISION MAKER. È IL LETTORE DI REPUBBLICA […]”. Basta riprodurre una pubblicità di questo tenore (da ‘La Repubblica’ metà anni Ottanta) a segnalare che l’allontanamento della Sinistra dalle sue radici ideali e sociali viene da lontano. Allo stesso  modo, locuzioni gergali o dialettali diventano indicatori fondamentali dello stato di civiltà di un’epoca, in un libro di memoria e memorie in cui l’autore fa i conti in prima persona con i grandi eventi del secolo: dal fascismo alla Resistenza al comunismo; dal crollo del Muro al Berlusconismo. Lo scrittore si muove con una costante attenzione per la Storia, a cui continuamente rinvia l’amore per la letteratura: mentre considera ‘Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana’ “la testimonianza più fedele di una società e di un popolo”, Bellocchio infatti dissemina il suo ‘Diario’ di riferimenti al ‘Pinocchio’ di Collodi: che utilizza come lente ideale per comprendere società ed economia italiane nella seconda metà dell’Ottocento, ma anche a illustrazione del brusco discanto che dalle illusioni post-’68 porta alla crisi della Prima Repubblica.

Direi che siamo quasi in dirittura d’arrivo. Altre due osservazioni sono però importanti. Nel ‘Diario’ Bellocchio parla anche di Piacenza. Che rapporto aveva con la città?

Sì, in questo quadro d’insieme rientrano naturalmente anche alcune osservazioni di Piergiorgio su Piacenza: da lui definita “ottusa e tradizionalista”, ma non diversamente da tante altre città della provincia italiana. Era ben conscio dei limiti della città, senza per questo denigrarla tout court, e anzi consapevole della sua vivibilità. Non aveva un rapporto di particolare affetto con Piacenza, se non per i legami famigliari e in qualche caso amicali. I ‘Quaderni piacentini’ sono nati a Piacenza per comodità logistica, ma vendevano altrettanto o di più in qualunque altra città della provincia italiana. E naturalmente a Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli. Nel libro è poi riproposta una gustosissima pagina di Giampaolo Dossena, che compara la defenestrazione a Piacenza del Duca Pier Luigi Farnese il 10 settembre 1547 (che la trasforma in “figlia della serva” rispetto a Parma, nuova capitale del Ducato) e la nascita nella nostra città dei ‘Quaderni piacentini’, oltre quattro secoli dopo.

Che importanza hanno per Bellocchio le immagini, essenziali in questo ‘Diario’?

Sono sempre state fondamentali per lui, per indagare e comprendere la realtà: dalle vignette ai quadri, dai film alle fotografie, dalle pubblicità ai disegni. Bellocchio è un grandissimo esploratore di immagini e si potrebbe dire che ‘Diario del Novecento’ sia anche quell’’Autoritratto italiano per immagini’, che negli anni Novanta avrebbe dovuto realizzare per Bollati-Boringheri, ma poi non fece, restituendo l’acconto all’editore. Nel libro ci sono immagini che parlano da sole, fanno testo a sé: papa Woijtila e Pinochet al balcone del palazzo della Moneda nel 1987, per esempio; altre che fungono da contestualizzazione storica: bambini a piedi nudi vicino a Mussolini segnalano la povertà nell’Italia fascista degli anni ’30, mentre negli anni ’50 ragazzini poverissimi ma sorridenti verso l’obbiettivo fotografico sono il simbolo del passaggio degli americani e del boom economico alle porte. Diverse immagini sono invece analizzate e commentate: la foto di un’impiccagione di giovanissimi partigiani bielorussi; oppure le rughe e la dignitosa compostezza di una contadina che condensano in un volto “bellezza e nobiltà”.

È doveroso chiederlo: ‘Diario del Novecento’ avrà un seguito?

Per quel che mi riguarda, devo ancora riavermi dalla perdita di Piergiorgio, abituarmi alla quotidianità della sua assenza. L’avventura di ‘Diario del Novecento’ non è stata solo un impegno editoriale, ma soprattutto l’ultimo capitolo di una lunga fedeltà alla nostra amicizia. Sono curioso del riscontro di lettori e critici su quanto è già uscito: certo il materiale per un altro volume (2001-2020) c’è tutto, e c’è un precedente impostato e approvato dall’autore. Altre centoventi agende sono una miniera preziosa, direi unica, da non sprecare.

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