Quelli che il Corso, il Baracchino e il People…

Che si possa costruire e far passare attraverso il foro del collo di una bottiglia un modellino di nave, completo di vele spiegate e alberi, è qualcosa che stupisce e richiede grande cura e amore per il dettaglio.

“Nave in bottiglia” è il titolo della nuova rubrica che su PiacenzaSera.it curerà Mauro Molinaroli, con lo stesso amore per i ricordi.

Ecco la sesta puntata.

Quelli che il Corso, il Baracchino e il People…

In quel fascio di anni che sembrano essere finiti nell’oblio e che vanno dalla metà dei Settanta al decennio successivo, eravamo più giovani e non ci rendevamo conto che stava per concludersi un’epoca: l’età dell’oro del Novecento era giunta al capolinea, perché stavamo per lasciarci alle spalle una stagione in bianco e nero, da ricordare o da mettere nell’album di famiglia.

Di solito del passato ci restano alcuni nomi che il linguaggio tende a dimenticare. Eludiamo le inutili precisioni. Non esiste né cronologia né storia. Non esistono neppure le statistiche.

Esistono però i ricordi. E i ricordi sono anche Corso Vittorio Emanuele, un percorso infinito di ricordi lungo soltanto un chilometro.

Questo il Corso nei miei sogni di ragazzo di provincia che guardava il mondo con occhi grandi, di adolescente il cui talento era sogno, speranza, leggera follia e la maturità il risveglio, purtroppo.

Provincia dolce, malinconia sottile, nevrosi lenta. E’ un verso di “Piccola città” di Francesco Guccini e calza perfettamente in queste microstorie.

Il sabato pomeriggio si incrociavano e s’incrociano gli sguardi di intere generazioni. Il passeggio ritmico, sincopato: un tango o un mambo. I luoghi che sono poi la storia, il tempo, il passato e il presente: il liceo Respighi, le bici da sogno di Carlo Rivaroli, Halifax, la Libreria del Corso, Ferranti e il fascino della musica, il Sandy Bar, l’Iris, il Corso e appena più indietro la chiesa e il quartiere di Santa Teresa, la sede della Democrazia Cristiana.

E poi il bar Baldini, la gioielleria Fermi, la pasticceria Galetti e tanti negozi: la gastronomia di Molinelli e un’infinità di jeanserie, Rive Gauche e Ronchini, la moda che si fa meraviglia e una commessa di nome Antonella.

Ma il Corso erano anche le gioiellerie Dellavalle e Della Lucia, la pellicceria Toscani, Brizzi Sport con l’amico Gigi e la pizzeria Marechiaro teatro di serate coi compagni di scuola: una pizza, una birra e poi… la sua bocca da baciare, non c’entra Battisti che per altro ho amato fino all’inverosimile.

C’entra piuttosto Francesca, impazzivo per lei. Mi faceva sangue coi suoi jeans attillati e le tette bene in vista. Quando si è giovani è strano, tutto si dilata e quell’antica pizzeria muove ricordi.

E questa strada, oggi com’è? Non ci sono più i bus che l’attraversano e il sabato sera le auto non fanno lunghe code perché quella striscia di strada non è il lungomare del Forte o di Viareggio.

Di sera è spesso deserta, città vuota a parte l’onda lunga del fine settimana quando la gente esce dai cinema e i ragazzi che fanno la fila da Zune. Gli attori di un tempo non esistono più. Ugo, il vecchio barbiere di via Santa Franca, le gelaterie deliziose e artigianali, il profumo del caffè, la boutique della frutta del vecchio Cabrini.

Ma Corso Vittorio Emanuele vuol dire, struscio, passeggio, luogo d’incontro, salotto buono, belle ragazze e donne affascinanti. Borghesi il giusto. C’era il Bar Americano negli anni Settanta ed era gremito di giovani benestanti che tiravano a sorte il sabato sera se vedere l’alba al Forte o a Santa Margherita.

E poi al bar Motta, di fronte all’Americano, c’erano quelli della notte o se vi pare quelli del poker e del ramino. Tiravano mattina in una nuvola di fumo che impregnava abiti e muri, il tavolo verde era una passione tanto vera quanto perversa, mentre nelle estati che non finivano mai la gente alla buona e i primi centauri facevano tappa al Baracchino, tra una granita col ghiaccio tritato a mano dal vecchio Cifòn e una fetta d’anguria che allontanava la calura.

Con gli anni il “Baracco” è diventato il luogo della sosta di grandi moto, il punto da cui partire per una volata in alta Valtrebbia. Quanti studenti, quanti ragazzi si danno ancora oggi appuntamento proprio lì, dove un tempo quei bar hanno fatto storia.

Chiusero negli anni Ottanta e a qualcuno parve la fine un’epoca, una stagione archiviata per sempre, perché quei luoghi hanno rappresentato la storia di amori nati davanti al liceo, finiti male quasi sempre perché il tempo emigra e cambiamo dentro.

Dalla fine degli anni Settanta il Dolmen di William Xerra racchiude il sacrificio di tanti caduti per la Resistenza. Dal Duemila c’è un monumento girevole dedicato a Sant’Antonino.

Chi lo voleva rivolto verso il centro, chi verso la periferia, l’allora sindaco Gianguido Guidotti la buttò lì: “Facciamolo girare”. Detto e fatto.

In una città dove succede poco o nulla e dove, per realizzare qualcosa occorrono pareri e contropareri, incontri, informazioni e riunioni, il monumento che gira venne realizzato in un battibaleno. Storie di ordinaria provincia.

Mauro Molinaroli

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