L’accoglienza “senza filo spinato” degli ugandesi ai profughi del Sud Sudan IL DIARIO

Arrivano a coronamento le celebrazioni per i 50 anni di Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo, l’ong piacentina fondata da Don Vittorio Pastori. Con il momento più bello e significativo, il viaggio in Uganda insieme al vescovo di Piacenza Adriano Cevolotto, dove ogni giorno la “cooperazione e lo sviluppo” si praticano con azioni concrete. Gianni Cravedi, col suo diario su Facebook (dal quale sono presi i testi e le foto) ci accompagna per raccontare le tappe all’interno delle missioni in Karamoja, della scuola e delle altre attività insediate in quella porzione dello sterminato continente africano.

Africa mission foto Uganda Gianni 7

MARTEDÌ 7 FEBBRAIO – Non si smette né di camminare né di sperare percorrendo la terra di nessuno che divide Uganda e Sudan del Sud. Le merci e l’umanità più varia si incrociano sul ponte che fa da confine. Ed è attraverso questo fiume, a partire dal 2013, che oltre due milioni di profughi sud sudanesi hanno lasciato il proprio paese durante la guerra civile per scappare verso l’Uganda. Una delle più grandi crisi migratorie del mondo con numeri da far tremare i polsi, ma l’Uganda ha inventato un modello di accoglienza che rende il paese un esempio per tutto il mondo. Dentro a questo modello, Africa Mission dà il suo contributo. Per capire di più abbiamo raggiunto il confine con il Sud Sudan, dove abbiamo incontrato Debora e Valeria, giovani operatrici di Africa Mission che si stanno occupando dei progetti.

Dopo il ponte sul fiume che fa da confine è l’UNHCR, Agenzia dell’Onu per i rifugiati, che gestisce tutta la fase di prima accoglienza in collaborazione con il governo ugandese. All’inizio i profughi vengono identificati e registrati. Dopo si procede con la visita medica e le vaccinazioni. Una volta ottenuta la carta d’identità chi vuole può proseguire in Uganda avendo tutti i diritti dei cittadini ugandesi. Altrimenti ci si ferma nei campi profughi della regione, che non hanno muri, fili spinati o cancelli ma sono di fatto dei villaggi africani in mezzo alla savana. Questa è la peculiarità del modello ugandese. Ai profughi che si fermano viene assegnato un pezzo di terra da coltivare e il materiale per costruirsi una capanna. Viene inoltre assegnato a ogni persona un sussidio mensile e una razione di cibo. In questo momento, visto che in Sud Sudan la situazione si è stabilizzata, ogni giorno solo poche decine di profughi si presentano al varco. Vediamo infatti la zona dove avviene la registrazione completamente sgombera. Nel momento più acuto della crisi, a fine 2013, si presentavano anche 10mila persone al giorno. Nell’ultimo mese, quello di gennaio, sono stati registrati solo 600 arrivi.

Ai profughi, visto la politica d’accoglienza del governo, non conviene sottrarsi all’identificazione e di fatto nessuno diventa clandestino. Forse è su questo punto che anche in Italia bisognerebbe aprire una riflessione, su un modello peculiare che certamente qui può funzionare grazie agli ampi spazi africani, ma che qualcosa può comunque insegnare anche a noi. Africa Mission interviene in cinque campi profughi sui 19 che esistono nella zona di Adjumani. Una regione che ospita complessivamente 255mila profughi a fronte di una popolazione locale di 245mila persone. Dopo aver visto il confine abbiamo raggiunto il campo profughi di Agojo, che ospita oltre 6mila profughi. Tante capanne, tanti bambini, in una situazione certamente difficile ma non molto diversa dagli altri villaggi ugandesi. I problemi sono sempre gli stessi; la scarsità dell’acqua, la mancanza di luoghi d’aggregazione soprattutto giovanile, l’attrito con le comunità locali in una convivenza difficile dove la scarsità delle risorse naturali non aiuta. Africa Mission interviene mettendo a disposizione la sua esperienza maturata in cinquant’anni di Karamoja.

Nel campo incontriamo Alima, che è ospite con i suoi 5 figli, il più piccolo di 4 mesi, il più grande 13 anni. Ci mostra con orgoglio la capanna dove vive. Ci racconta che il marito è rimasto in Sud Sudan a curare la sua attività di commerciante di vestiti – “La situazione è difficile. Il governo ugandese ha ridotto le razioni alimentari che ora non bastano più. La situazione in Sud Sudan non è ancora del tutto sicura. Per adesso non torno. Qui, comunque, si può coltivare l’orto, i bambini possono andare a scuola, c’è un piccolo presidio sanitario, si fa anche formazione professionale che sarà utile quando un giorno torneremo a casa” – magari attraversando il confine in direzione opposta, passando nuovamente nella terra di nessuno verso un futuro meno incerto. (8- continua)

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