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La recensione di PcSera: Afterhours, Padania

Le recenti vicende di cronaca – in particolare la grottesca storia della laurea comprata dal Trota in Albania, qualcuno dice con una rivoluzionaria tesi sulla tabellina del due – rappresentano un ottimo traino per l’attesissimo nuovo album della band milanese, al rientro su lunga distanza dopo oltre quattro anni.

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AFTERHOURS

Padania (2012)

Le recenti vicende di cronaca – in particolare la grottesca storia della laurea comprata dal Trota in Albania, qualcuno dice con una rivoluzionaria tesi sulla tabellina del due – rappresentano un ottimo traino per l’attesissimo nuovo album della band milanese, al rientro su lunga distanza dopo oltre quattro anni.

Le polemiche su una presunta svolta pop e di cedimento al mainstream, come anche le accuse di tradimento da parte dei fan della prima ora, paiono qui lontane anni luce: “Padania” è infatti un disco di rock ruvido e spigoloso, urgente e ispirato come agli esordi. Tutt’altro che di facile ascolto.

A partire dall’incipit, “Metamorfosi”, con un Manuel Agnelli che sperimenta vocalizzi degni di un Demetrio Stratos, accompagnato dalle sfuriate del rientrante chitarrista storico Xabier Iriondo (se ne è andato Gabrielli) e dal violino distorto di Rodrigo D’Erasmo: spiazzante, così come “Ci sarà una bella luce”, obliqua e scomposta come mai prima d’ora, tra Captain Beefheart e Frank Zappa. “Terra di nessuno” (“ti ho guardato troppo abbassare il tuo viso/sussurrando che è perchè noi siamo forti/aspettando il colpo che ci avrebbe steso/proprio mentre ci stan rubando la forza”) e l’elettrica “La tempesta in arrivo” (“ognuno pensi a se’ stesso”) , scelta per la colonna sonora di una fiction Sky, ci riportano in territori già battuti. Poi arriva la straordinaria ballad “Costruire per distruggere” (“cadremo tutti e poi sarà il piacere/cadremo tutti e poi festeggeremo/la liberazione dal nostro dovere/costruire per distruggere/una lunghissima rincorsa e finalmente poi/e finalmente poi poter morire”), il brano migliore e tra i loro più belli di sempre. La furiosa “Fosforo e blu” inaugura il lotto dei pezzacci più tirati, che si completa con “Spreca una vita”, “Giù nei tuoi occhi” e “Io so che sono”. La title-track, bellissima, è degna erede di “Quello che non c’è” e sottolinea la continuità, insieme alle notevoli e mai banali “Nostro anche se ci fa male” (“con il veleno che ti ho messo in cuore/non si sopravvive mai/ma tu hai imparato ad amare il tuo dolore/piuttosto che non amarmi più”) e “La terra promessa si scioglie di colpo”, che chiude l’album con classe e lucidità (“senza cori nè bandiere/è uno stato nella mente e so/che c’è una dittatura/perchè c’è qui dentro me”). Completano la raccolta lo strumentale “Iceberg” e i due sarcastici Messaggi Promozionali, il primo dei quali pare imparentato con i Verdena dello straordinario “Wow”.

Un panorama desolante e spietato, quello della loro (nostra) Padania. Una landa desolatamente un declino, disillusa e incattivita, disorientata e senza prospettive. Triste e gelida come la cover dell’album, con un cancello solitario e arrugginito nella neve fradicia.

Un grande disco, che fa arrossire alcune bands italiane recentemente sponsorizzate dalla critica specializzata. Per ribadire chi sono, qui da noi, i fuoriclasse autentici.

Giovanni Battista Menzani

su Fb: Polveri Sottili

 


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