Il disastro aereo in Etiopia “Dolore per un popolo che amo” IL COMMENTO foto

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Mi dà molta sofferenza la notizia dell’aereo etiopico  precipitato domenica mattina pochi minuti dopo il decollo dall’aeroporto internazionale di Bole, a settanta chilometri dalla capitale Addis Abeba.

Spero tanto che non si tratti di un atto di terrorismo, né di un errore del pilota, perché l’Ethiopian Airlines è una ottima compagnia da parecchi anni, con piloti ben addestrati e velivoli nuovi. Già molte illazioni si sono propagate in queste ore della giornata.

Di fatto 157 persone sono morte, otto di loro erano italiani, e fra loro persone di cultura, di pace.

La notizia mi coglie a Tabora, nel nord ovest della Tanzania, a cinque giorni dal volo ET 827 Addis Abeba – Dar Es Salam.

No, io non avrei potuto essere su quell’aereo, non rivendico teorie vittimistiche o pietistiche: diversa la rotta, diverso il tempo, ma l’idea che sia stato colpito un popolo che amo, che frequento da tanto tempo, fra il quale ho molti amici e conoscenze mi stringe il cuore.

E c’è sempre il dolore scaturito dalla drammaticità dell’evento, da cui vittime e familiari affranti.

Un popolo che ha molto sofferto per mancanza di pace, per la quale si stanno battendo, sia all’interno del Paese che verso l’esterno, il giovane primo ministro Abiy Ahmed e la neo presidente Sahle-Work Zewde, prima donna (e unica dell’Africa post coloniale) eletta a capo di uno stato africano da un parlamento rappresentato equamente da donne e uomini.

Perfino il Ministro della difesa è donna come pure il Ministro della pace, dicastero creato specificatamente dal nuovo governo in carica da ormai un anno.

Etiopia

Ci sono troppe ragioni che fanno propendere per l’attentato, innescate proprio da questa acclamata e sbandierata voglia di pace, dopo gli anni della guerriglia, fin dal 1960 al tempo dell’ultimo negus Hailé Selassie per l’indipendenza dell’Eritrea, continuata dal ’74 da Menghistu Mariam,  fautore di un regime repressivo, fino agli ultimi governi che avevano isolato il paese e prese misure contro le libertà.

Ora, tutta questa libertà promessa ha inebriato la popolazione; tra i primi atti quello con cui  il premier ha liberato centinaia di oppositori politici imprigionati da lungo tempo, gli incontri sul tema con i colleghi dei Paesi vicini, ha scambiato visite di cortesia con l’omologo eritreo.

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Tuttavia con questo stato “fratello” deve ancora concludere patti, per esempio per l’accesso al mare, origine di infiniti conflitti e necessità vitale per il commercio dell’Etiopia, nonostante l’accesso stipulato con Gibuti per l’utilizzo del porto.

E’ di pochi giorni l’inaugurazione del Polo industriale di Debre Beheran da parte del premier che ha voluto accanto a sé il collega kenyano, col quale, lo stesso giorno, il 2 marzo ha celebrato la storica vittoria degli etiopici sugli italiani nella battaglia di Adwa. Una giornata di grandi festeggiamenti e rievocazioni ovunque, segno di unità nazionale, e nella capitale culminate con il “Concertone” notturno di Piazza Meskel.

Tutta questa democrazia potrebbe dar fastidio a qualcuno lontano dal Corno d’Africa.

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Poi la guerra dell’acqua. La diga Gilgel Gibe III, costruita dall’italiana Salini Impregilo (quest’ultima di origini piacentine) sul fiume Omo, da cui ricavare energia elettrica da vendere all’estero, e per lo sviluppo interno della stessa Etiopia, ha scatenato reazioni negative in Egitto e in Kenya: il primo lamenta meno accesso di acqua nel Nilo azzurro, di cui è principale affluente l’Omo; il secondo denuncia l’abbassamento del livello dell’acqua nel lago Turkana alimentato dall’Omo.

La più grande diga dell’Africa è stata pianificata dai precedenti governi, che ne hanno programmate altre due, la quarta è in corso di costruzione, ma i bruciori di stomaco dei Paesi vicini ora devono essere curati dall’amministrazione di Abiy Ahmed.

E c’è il ruolo geopolitico dell’Etiopia, nel Corno d’Africa e in tutta la regione Est, in virtù della sua antica storia di autonomia, che, agli albori della civiltà cristiana la vedeva ben più estesa, fino al sud dell’Egitto, barriera invincibile al mondo musulmano e perfino alle colonizzazioni europee.

Questa Etiopia, in vena di democrazia – ne sono convinti anche i principali leader religiosi ortodossi, protestanti, musulmani, le tre confessioni più rappresentate e perfino cattolici (intorno all’1 per cento) – ma anche terra di contrasti etnici, di popolazioni deportate dai vari governi dalle zone delle dighe, che hanno trovato un certo sostegno esterno nella contestazione delle grandi opere.

Paese dove lo sviluppo è macroscopico: la capitale ha due linee di metropolitana, mentre la città (urbanisticamente assurda con una altitudine da un quartiere all’altro che varia da 2200 a 2500 mt) va modificando il suo skyline con grattacieli che crescono come funghi, il più alto ha appena raggiunto i 46 metri. Vi splende un nuovo, faraonico, Centro congressi dell’Unità Africana  donato dai cinesi, il cui commercio sta colonizzando l’intero Continente.

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A chi potrebbe dar fastidio tutto ciò?

Eppure, se ci si  inoltra nell’interno, si scoprono le molte sacche di povertà persistenti nelle zone rurali delle periferie del Paese, a sud come a nord, ad est come ad ovest.

105 milioni di abitanti sono tanti da mantenere, pur in un territorio vastissimo, spesso poco coltivabile fra canyon, improvvise depressioni, aree semidesertiche, montagne brulle e avare di acqua.

Questa Etiopia che sta aprendosi a moderna democrazia, mostra ancora le sue molte debolezze sulle quali potrebbero puntare chi, Dio non voglia, ambisce a destabilizzare un’area già creditrice di tributi a grandi potenze; e oggi, più di prima, la globalizzazione non concede autonomie locali.

Ecco perché mi piacerebbe credere all’incidente, anche contro tutte le premesse.

Maria Vittoria Gazzola

Etiopia

 

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