“Ho sconfitto il virus e sono tornata in prima linea accanto ai miei colleghi”

Nelle ultime settimane il quotidiano bollettino sanitario riguardante la situazione della pandemia di Coronavirus ha evidenziato uno spiccato trend di riduzione della curva del contagio.

Durante la fase più acuta dell’emergenza sanitaria di Covid1 è rimasto coinvolto anche il personale sanitario, quello che maggiormente è venuto a contatto, specie nei giorni appena precedenti il lockdown, con pazienti infetti. Abbiamo chiesto all’infermiera Camilla Castignoli, che nel 2013 è stata assunta nell’Azienda Usl di Piacenza e dal 2017 lavora nel Dipartimento di Emergenza-Urgenza presso il servizio di Emergenza Territoriale 118, di ripercorrere le settimane più buie della nostra provincia, che dall’inizio dell’epidemia ha registrato quasi 4500 positivi e 946 decessi.

Camilla Castignoli si è diplomata al Liceo Classico San Vincenzo di Piacenza nel 2008, si è quindi laureata in Infermieristica nel 2011 presso l’Università degli Studi di Parma e nel 2014 ha conseguito il master in Infermieristica in emergenza e urgenza sanitaria presso l’Università degli Studi di Firenze. È sposata ed è mamma di due bambine. Castignoli è tra quei sanitari che hanno contratto il virus e si è ammalata. Nei primi giorni di marzo ha accusato i primi sintomi ma, fortunatamente, non ha subìto gravi ripercussioni: il decorso della malattia è stato veloce e tutto sommato blando. È così potuta tornare al lavoro dopo un paio di settimane a casa. Dal 15 marzo scorso ha così ripreso a lavorare e da allora è a prestare nuovamente servizio sulle ambulanze e sulle automediche del 118.

Si sente una sopravvissuta al Covid19?
Non mi sento una sopravvissuta, mi sento molto fortunata ad averlo contratto senza subirne gli aspetti più gravi. Ho visto in prima persona quanto male può fare questo virus ad un corpo umano, ritengo quindi che sia io che il mio nucleo familiare lo abbiamo preso in forma leggera. Ciò nonostante sono dovuta rimanere a casa dal lavoro per due settimane, e in quei giorni i miei pensieri erano rivolti ai miei colleghi di lavoro impegnati nelle tantissime chiamate che si registravano in quello che si è poi rivelato essere stato il picco dell’epidemia.

Quando ha iniziato a non sentirsi bene?
Ho fatto l’ultimo turno prima di ammalarmi a Piacenza, era la mattina del 26 febbraio, ed ero in forze alla tenda PMA (posto medico avanzato, ndr) che era stata da poco allestita all’esterno dell’ospedale in via Cantone del Cristo. Non ho elementi per dire di aver contratto il Coronavirus in ospedale, in quei giorni o in quel turno, piuttosto che al di fuori dell’ambito lavorativo. Sta di fatto che nei primi giorni di marzo mi è venuta la febbre, non era alta, misurava 37.7° ed è durata un paio di giorni. Intensi e fastidiosi sono stati i dolori articolari. A febbre scesa mi sono accorta di aver perso il gusto e l’olfatto e un forte senso di spossatezza che mi attanagliava. Mi era anche passata la voglia di mangiare, così ho anche perso peso. Subito il primo giorno ho chiamato al lavoro avvisando che non stavo bene. Nei giorni a venire, mentre ero a casa e avevo tagliato ogni contatto con il mondo esterno, sono stata contattata dal Servizio Prevenzione Protezione dell’Azienda Usl. Nel frattempo mi sentivo già decisamente meglio. Sono rimasta a casa per due settimane e, poi, finalmente il 15 marzo ho potuto riprendere il lavoro.

È stata quindi costretta a rimanere a casa, in isolamento. Ha temuto per la salute della sua famiglia?
Sono stata costretta ad un isolamento domiciliare, obbligato ma doveroso. Non mi sono mai allarmata per essermi ammalata: seppur non mi sentissi bene vedevo un miglioramento continuo sia in me che nelle mie figlie, con mio marito rimasto praticamente asintomatico. Ci siamo piuttosto dovuti organizzare per la spesa: preziosi sono stati i miei genitori che ci recapitavano i viveri, e quanto ci serviva, lasciando i sacchetti davanti sullo zerbino di casa. Nessun contatto diretto, l’unico modo di sentirci era utilizzando il cellulare.

È rimasta a casa due settimane. Avrà avuto modo di rimanere aggiornata sulla situazione sanitaria piacentina sia attraverso i suoi colleghi di lavoro che attraverso i mass media. Quali pensieri la attraversavano in quei giorni?

All’inizio sia io che i miei colleghi eravamo ancora perplessi. Quel 26 febbraio eravamo all’inizio di un epidemia in evoluzione. La zona rossa era considerata Codogno eppure in Pronto Soccorso arrivavano persone con sintomi respiratori importanti. Quando sono dovuta rimanere a casa ho pensato ai miei colleghi, specialmente a quelli di Bobbio che, anche a causa della mia assenza, stavano saltando dei riposi per coprire i turni. La stampa credo abbia lavorato benissimo, fornendo sempre notizie aggiornate.

Terminata la malattia, ricevuto il nulla osta per ritornare al lavoro, com’è stato essere in prima linea in quella che senza mezzi termini si può definire una guerra da combattere contro un nemico subdolo e invisibile?

È stato molto impegnativo, soprattutto sotto il profilo psicologico. Tante persone che siamo andate a prendere nelle proprie abitazioni, così come nelle case di riposo, non sono più tra noi. Era un dolore immenso spiegare ai parenti dei pazienti che non potevano seguici all’ospedale e neppure far visita al loro caro ricoverato. Un impatto emotivo forte. Sono stati giorni duri per tutti. Credo che un grazie sia doveroso anche nei confronti di tutti gli autisti, essi hanno dato man forte a me e a tutti i miei colleghi. Un team che ha dato il massimo senza risparmiare energie. E ci tengo a sottolineare che, così come facevamo prima che si verificasse questa emergenza sanitaria, il nostro è sempre stato e sempre sarà un mestiere votato al bene dei pazienti. Chi come me sceglie di fare questo lavoro sa che esso è complesso ma dalle grandi soddisfazioni.

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