“Esterno notte”: polifonia di un’Italia sconfitta. Tra vittime e carnefici, Moro è l’unico rivoluzionario

“Tu non vuoi vincere, vuoi morire da eroe”. “Credi davvero che vinceremo? Non ci sarà nessuna rivoluzione, a me interessa solo trasgredire”.

Si esprimono così Adriana Faranda e il suo uomo Valerio Morucci, due dei brigatisti rossi che rapirono Aldo Moro nel marzo 1978. La seconda parte di “Esterno Notte”, ultimo capolavoro scritto e diretto dal regista piacentino Marco Bellocchio destinato a diventare serie televisiva, dal 9 giugno è nelle sale cinematografiche con i suoi ultimi tre episodi. Bellocchio continua il suo viaggio tra le pagine più cupe della Storia italiana (quelle del sequestro e successivo delitto Moro), attraverso la polifonia dei punti di vista dei personaggi: ma stavolta gli uomini della Democrazia Cristiana e le stanze di palazzo – pur rimanendo centrali per le scelte strategiche che condanneranno Moro a morte -, sono messi in secondo piano rispetto all’analisi dei conflitti interni alle Brigate Rosse e all’esplorazione dell’universo famigliare. Entrambe filtrate, soprattutto dal punto di vista femminile.

Nel quarto episodio, allora, il punto di vista è quello dei brigatisti; divisi, preoccupati, talvolta esaltati, altre insicuri. Eseguono, “Siamo un esercito” dicono, ma sotto quegli ordini indiscutibili si allungano distanze, affiorano crepe: Adriana Faranda (una bravissima Daniela Marra) crede fermamente nella rivoluzione, per cui ha lasciato anche la figlia fuggendo con il proprio uomo (Valerio Morucci, interpretato da Gabriel Montese) al quale invece interessa solo il gusto della ribellione verso il potere costituito. Vediamo Faranda gongolare dopo aver sparato al professore di economia della Sapienza, ma commuoversi guardando in tv i funerali degli agenti della scorta di Moro. La stessa che si lascia travolgere dalla passione per Morucci a scapito della famiglia, ma prima mette al sicuro le pistole sull’altarino dedicato alla compagna uccisa e nasconde alla figlia Alexandra la relazione tra lei e il compagno. Nonostante la loro sostanziale diversità, al culmine del quarto episodio i due brigatisti intuiscono comunque l’errore fondamentale: uccidere Moro non è rivoluzione. Rivoluzionario sarebbe lasciarlo libero a confrontarsi con gli amici che l’hanno abbandonato. Ma alla fine sparano insieme ai compagni, carnefici e vittime anche loro di quel pensiero unico, che nascondendosi dietro falsi ideali romantici, causa solo morte e distruzione.

Vittima è poi Eleonora, moglie di Aldo e protagonista del quinto episodio. Una potente e misurata Margherita Buy, i cui continui primi piani si fanno chiara espressione di tutto il dolore e la rabbia vissuti. Contraltare femminile di Faranda, Eleonora fa di tutto per riportare a casa il marito vivo, ma è prigioniera anche lei di quel potere di Stato che, invocando l’ipocrita scusa della fermezza, ha già deciso la morte del presidente della DC. Il potere racchiuso nelle ambigue effusioni di chi conforta tra lacrime e abbracci la futura vedova, di chi dorme sonni tranquilli senza troppo apparire. Quel potere che trasuda dalle macchie sulla pelle di Cossiga e dai ringraziamenti involontari ai propri carnefici. Mentre il grido della giovane al funerale di uno degli uomini della scorta: “Questa è la vostra guerra, non la nostra!”, così simile al “loro non cambiano” urlato durante le esequie di Borsellino, ci ricorda quanto il ‘caso Moro’ sia un punto di accumulo che ha inghiottito tutto e tutti: personaggi, Storia e storie d’Italia, in una ferita che continua a sanguinare.

E se nel film, la Storia si de-storicizza nei gesti e nella prossemica quotidiana dei personaggi, ritorna e si ripete tra prolessi, analessi, media e immagini di repertorio, in cui anche la finzione è utilizzata per comprendere meglio la realtà. Tutto attraverso un approccio multi-prospettico di alternanza di punti di vista, dove registro oggettivo e soggettivo si succedono e si rincorrono. Fino all’ultimo, potentissimo episodio, che nell’ardente confessione di Moro ricongiunge la Storia alla contemporaneità. Dalla cella di prigionia, da quello spioncino già visto in “Buongiorno, Notte” (2003), un intenso e dolente Moro (interpretato da un magistrale Fabrizio Gifuni) fa i conti con la consapevolezza della verità che gli sta di fronte, unico atto salvifico ormai possibile. E Bellocchio parla agli spettatori attraverso il suo protagonista.

Abbandonato dagli ex ‘amici’ di partito e fatto passare per ‘pazzo’ mentre cercava di salvarsi la vita dai suoi aguzzini, nei suoi ultimi giorni il presidente della DC è pienamente cosciente di dover morire. Eppure, durante la confessione con il prete, unico volto umano visto durante la prigionia, Moro è disperatamente scisso tra l’odio per i compagni di partito che gli hanno voltato le spalle – e di cui sa di aver sempre finto di non vedere le meschine dissimulazioni – e l’umanissima incapacità che egli sente propria di rassegnarsi alla morte. Lui, che ha fatto della religione uno dei suoi pilastri esistenziali, a poche ore dalla morte non potrebbe essere più terreno e attaccato alla vita.

È la presa di coscienza la sua rivoluzione, sembra dirci Bellocchio. Vittima per eccellenza, Aldo Moro è il più libero e il più evoluto tra i personaggi del film, nel suo aperto confronto con la verità più amara. L’unico vero rivoluzionario, e forse l’ultimo tra i rivoluzionari italiani. Per questo ancora oggi manca. Un film potente, audace, storico eppure attualissimo, come solo le grandi opere sanno essere. Da non perdere.

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